Seminario Fabio Condemi
Pier Paolo Pasolini
Cosa resta del teatro quando si toglie la rappresentazione?
Durante il seminario condotto da Fabio Condemi ci siamo immersi nel teatro di Pier Paolo Pasolini partendo da cinque testi: Calderón, Pilade, Bestia da stile, Orgia, Porcile. La prima tappa è stata scegliere un monologo da imparare a memoria. Un lavoro che ha fatto emergere la complessità del linguaggio pasoliniano e la sua distanza da ogni forma di teatralità tradizionale.​

Il suo teatro non si presta facilmente alla messa in scena, almeno non nel senso comune del termine. Non ci sono personaggi psicologicamente definiti, né conflitti risolti secondo una logica drammaturgica. Le azioni sono rare, spesso sospese, e a guidare tutto resta la parola. Ma non una parola che spiega: una parola che evoca, che apre spazi interiori, visioni. E allora viene spontaneo chiedersi: cosa succede quando si mette in scena un testo che non vuole essere rappresentato, ma semplicemente detto, abitato, attraversato?
Condemi ci ha guidati in questa esplorazione senza imporre un metodo rigido. Ha lasciato spazio all’ascolto, al dubbio, alla possibilità di perdersi. E anche questo fa parte del lavoro su Pasolini: accettare che il senso non è dato, che il testo non va chiuso o interpretato una volta per tutte: è un terreno instabile, fertile, dove la parola contiene una tensione e il silenzio è pieno.



Ci siamo interrogati sul ruolo dell’attore in tutto questo: se il testo non chiede di essere rappresentato, allora qual è il compito dell’interprete? Forse non tanto quello di convincere o di rendere credibile, quanto piuttosto quello di restare esposto. Di farsi corpo attraversato dal linguaggio, senza cercare di addomesticarlo.
Questo tipo di lavoro non è facile da sostenere; richiede tempo, attenzione, disponibilità a mettersi in una zona d’incertezza, dove il confine tra ciò che si capisce e ciò che si sente è labile.
Il sogno è una presenza forte nei testi che abbiamo letto. Ma non è un sogno che consola o che offre vie di fuga: è un sogno lucido, che taglia la realtà con una certa durezza. In Pasolini, il sogno non è immaginazione sfumata, è visione nitida, quasi allucinata. A volte sembra più reale della realtà stessa. E forse è proprio in questa visione che si rivela il cuore del suo teatro.
Molti momenti del seminario sono stati dedicati a riflettere su come Pasolini affronti la dimensione tragica. Non si tratta di un tragico classico, costruito sul conflitto tra due forze. Qui la tragedia comincia dove il conflitto finisce, dove non c'è più dialogo, solo potere che si ripete, struttura che si chiude. È una condizione più che un evento. Anche per questo, forse, i suoi testi non lasciano mai la sensazione di una conclusione; sembrano più delle fratture che delle storie.


Pasolini parla da dentro una crisi, ma non la tematizza in modo programmatico; la lascia emergere nel linguaggio, nei salti logici, nelle ripetizioni, nei vuoti. E in questo, Condemi ha trovato un terreno fertile per la sua ricerca: il suo percorso registico è profondamente legato all’opera pasoliniana. Già con il saggio di diploma nel 2015 si era misurato con Bestia da stile, e poi ancora con Questo è il tempo in cui attendo la grazia, monologo costruito sulle sceneggiature di Pasolini, e infine con Calderón, dove torna a interrogare il rapporto tra sogno e realtà, tra parola e visione. Questo seminario nasce quindi da un confronto artistico che non è occasionale, ma radicato, costante, attraversato dal tempo.



Il lavoro fatto insieme ha lasciato domande aperte: che cosa possiamo farne oggi di un teatro che non vuole rappresentare? Come si trasmette un pensiero senza semplificarlo in un messaggio? In che modo lo spettatore può essere coinvolto, se non attraverso l’immedesimazione?
E ancora: qual è lo spazio, oggi, per un teatro che chiede silenzio, che non si affida al ritmo della narrazione, ma si appoggia al peso delle parole e alla presenza di un corpo in scena?
Non è stato un seminario facile, ma forse proprio per questo necessario. Ci ha messo di fronte al fatto che lavorare con Pasolini vuol dire anche interrogarsi sul proprio modo di essere in scena, sul senso stesso di fare teatro oggi. Non per trovare una formula nuova, ma per continuare a farsi domande che resistono.


A cura di Margot Océane