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Masterclass Marco D'Agostin

Dopo l’urto, che resta? Forse un tempo diverso. Un tempo più lento, che ci invita ad ascoltare

Quando un musical incontra la paleontologia e ci racconta la fine di un amore come fosse un’estinzione di massa. 

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Dopo la visione dello spettacolo Asteroide di Marco D’Agostin al Piccolo Teatro Studio Melato, abbiamo avuto l’occasione di incontrare l’artista nell’ambito di una masterclass: un’occasione preziosa per ascoltare dalla sua voce il percorso, le intenzioni e le fratture che attraversano il lavoro.

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Lo spettacolo si muove tra i generi, senza volerli rispettare, ma interrogandoli dall’interno. È un oggetto scenico fuori categoria, dove la danza, la voce e la narrazione si alternano con apparente leggerezza, ma dentro una struttura profondamente pensata. Il punto di partenza è la scomparsa dei dinosauri, ma presto ci si accorge che non è (solo) un racconto scientifico: è la frattura – quella di una fine d’amore – che viene letta come un evento epocale. L’asteroide non è solo quello che ha colpito la Terra, è ciò che irrompe nella vita e la cambia per sempre.

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Durante la masterclass, D’Agostin ha condiviso le tappe del suo processo creativo. A partire da uno studio su testi e immagini, il suo metodo si basa sull’emersione di principi corporei, senza partire da un copione.

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«Quando entro in sala è vuota – ci ha detto – e devo perdermi per capire da dove iniziare». È un lavoro che parte dal corpo, dalla memoria, da pratiche somatiche che si trasformano in movimento. E infatti in scena il corpo è il vero archivio: danza una traiettoria emotiva, fa riaffiorare ricordi e domande, racconta ciò che non si può dire con le parole, ciò che parole non ha, non ancora, o forse mai ne avrà.

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«Cosa succede dopo che il mondo cambia? La danza continua, ma dev’essere diversa», ha spiegato l’artista. Asteroide si interroga su cosa ci sia dopo l’urto, su come potrebbe essere la danza e come potrebbe continuare a essere, a esistere? Forse solo trasformandosi. In questa trasformazione si inserisce anche un lavoro sull’estetica del musical, un genere spesso guardato con sospetto nel teatro contemporaneo. D’Agostin lo usa per interrogare l’imbarazzo, la spettacolarizzazione della fragilità, la difficoltà di “stare” sulla scena.

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La masterclass è stata anche un momento di riflessione sul mestiere dell’artista. D’Agostin ha raccontato il suo rapporto con la danza, inizialmente negata e allontanata a causa di una cultura intrisa di stereotipi di genere, e il modo in cui la cultura pop, la solitudine e lo sport agonistico hanno influenzato il suo modo di stare in scena. «Preferisco non parlare di me, ma dire cose utili a chi guarda», ha detto. E in effetti Asteroide non è mai autoreferenziale: è un invito a riflettere su cosa resta dopo una crisi, su come si sopravvive a un cambiamento, su quanto possa essere trasformativo uno spettacolo che non si capisce subito, ma lascia una traccia.

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Una delle citazioni più significative condivise da D’Agostin riguarda Susan Sontag: l’idea che l’interpretazione, quando forza il significato di un’opera, rischia di annullarne la dimensione sensuale, erotica, viva.


È forse questo uno degli obiettivi del suo lavoro: restituire al teatro la possibilità di essere esperienza, non solo spiegazione. Di essere relazione, non solo introspezione. Un dialogo tra attore e spettatore, tra chi guarda e chi è guardato, tra sé e l’altro.


In Asteroide, nel teatro di Marco D'Agostin, questo dialogo si estende ben oltre la scena: attraversa un tempo e uno spazio più complessi e liberi di quelli fisici. Un dialogo tra il prima e il dopo, lungo una linea che non ha né inizio né fine precisi, ma si muove tra continuità e ripetizione.​​

A cura di Margot Océane

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